Progetti speciali

 
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Immagini in corso

Una esperienza di formazione e ricerca Martino Doni

Cultura della formazione

Introduzione di Giacomo Lucchini, Direttore Tutor s.c.r.l.

Immagini_in_corso_1La formazione, per la Tutor s.c.r.l., non e’ un elemento aggiuntivo, ma sostanziale. Possiamo fare a meno di molte dimensioni organizzative e pratiche; possiamo rinunciare ai privilegi di una sede comoda o di un sistema informatico efficiente; possiamo sostenere la svalutazione dei titoli di studio, lo spaesamento delle competenze, il disorientamento cronico delle giovani generazioni. e’ il nostro mestiere. Ma non possiamo fare a meno della formazione.

Perché questo? Ce lo siamo chiesto tante volte. Nel corso delle nostre avventure umane e professionali, abbiamo tentato molte vie della formazione. Ci siamo concentrati sulle modalita’ individuali di intervento, sulle procedure per la messa in qualita’, sulla progettazione, sui ruoli e sulle competenze. Fino al punto di trasformare la formazione nel tessuto connettivo stesso del lavoro che cercavamo di impostare.

Formazione e’ un termine chiave del lavoro sociale, ma e’ anche un termine fin troppo logoro, usato e abusato, soprattutto in tempi di crisi, quando si utilizza la formazione per allentare la presa delle relazioni economiche fragili. Per noi, la formazione e’ innanzitutto una ragione sociale della nostra stessa agenzia professionale. Siamo una societa’ che, per statuto, opera nella formazione, nella cultura e nel lavoro. Il che significa che per noi fare formazione non e’ affinare delle tecniche per poi applicarle in un secondo momento, ma cogliere i processi nel loro stesso svolgimento.
Questa e’ forse la specificita’ più originale che possiamo perseguire: formazione non come cappello introduttivo, blasone ornamentale o pleonastico, ma come tessuto connettivo, sistema capace non solo di individuare le potenzialita’ del gruppo che partecipa ai percorsi formativi, ma di realizzare anche azioni coerenti ed efficaci.

Per questa ragione, la Tutor, dopo diversi interventi orientati su problematiche particolari, decise a suo tempo di rivolgersi a un’équipe di formatori che fosse esterna al territorio piacentino, e non direttamente coinvolta nelle tematiche specifiche della societa’. L’équipe dell’Universita’ di Bergamo e del suo Centro di Ricerche Scienze Umane Salute e Malattia, offrendo un taglio decisamente sociologico nel suo insieme, corrispondeva al quadro che ci stavamo immaginando.
Quando nel 2002 iniziammo come Tutor (allora s.p.a.) a organizzare i corsi di avviamento professionale, ereditando un “pacchetto” gestionale di consolidata tradizione pubblica regionale, entrammo improvvisamente, quasi brutalmente, in un mondo che comprendevamo con parecchia fatica. Proprio di un mondo si tratta: un mondo fatto di giovani, italiani e stranieri, che più o meno sistematicamente turbavano e minavano i nostri sistemi di insegnamento, di istruzione. La nostra stessa cultura, in un certo senso, era messa alla prova da una serie estenuante di provocazioni, di fatiche educative, di farraginosita’ burocratiche che dovevamo ancora assimilare.
Ci siamo fortificati, siamo cresciuti, siamo diventati più capaci di rispondere con fermezza e dedizione alle necessita’ educative che i ragazzi dei nostri corsi ci presentano tutti i giorni. A Piacenza diciamo: al temp l’e’ galantòm. Il tempo e’ il nostro principale formatore. Ci siamo dati tempo, ce lo siamo concesso non come un lusso, ma come risorsa indispensabile per interagire con problematiche sociali complesse, con attivita’ di insegnamento e di tutoraggio che esulano facilmente dalla mera esecuzione di una procedura predeterminata.
Il tempo ci e’ stato di grande aiuto. eravamo noi, nel tempo, a costruire la storia di un’azione organizzativa, educativa, formativa: eravamo noi che, sostanzialmente, imparavamo il mestiere e cercavamo di far tesoro dei nostri apprendimenti. La fatica più grande fu, forse, quella di accettare che il tempo facesse il suo corso, non avere fretta, non cedere ai ricatti dell’automatismo produttivo, dei meccanismi di performance (che generano altrettante ansie). Fu proprio attorno a questo nodo che individuammo il percorso formativo di cui tratta questo libro.
L’approccio metodologico che avevamo impostato fin dall’inizio, anzi: che avevamo cercato e richiesto, non doveva sondare motivazioni profonde a livello individuale. Quel livello era pertinenza delle singolarita’, appannaggio di ciascun membro del personale della Tutor, che in quanto tale svolgeva e svolge un curriculum formativo, scolastico, universitario, di tutto rispetto. La formazione non doveva essere un “doposcuola”, ma doveva aprire una finestra sugli stili di lavoro, e in particolare sulla modalita’ di gestione del tempo, che – nel momento in cui incominciò il percorso con l’équipe dell’Offerta Formativa – era evidentemente la frangia problematica dell’organizzazione.

Poi, come e’ chiaro, le cose sono andate in modo un po’ diverso da come le avevamo previste. Questo fu ed e’ un bene. Chi lavora nella formazione sa perfettamente che il difetto più grave degli interventi formativi e’ quello di porsi come risolutori di qualcosa, come se bastasse l’intenzione, come se il percorso di crescita e innovazione avesse la stessa valenza del leggendario ragazzino olandese che, infilando il dito nella falla della diga, evitò l’esondazione. Non ci serve la formazione tappabuchi, ma quella che i buchi li sa riconoscere, quella che ci aiuta non a risolvere i problemi, ma a immaginarci mondi in cui quei problemi diventino altrettante risorse, altrettante possibilita’ di sviluppo.

Anche per questo ci vuole tempo. ed e’ uno dei motivi per cui abbiamo proseguito il percorso formativo per diversi mesi, che poi sono diventati anni, stabilendo con il centro di ricerca bergamasco un sodalizio che non credo abbia dei precedenti in Italia in quanto a rapporti tra agenzie territoriali e istituzioni universitarie. In ogni caso, tutto questo tempo e’ stato ovviamente anche un rischio: rischio di perdere tempo, appunto, di disperdere le energie, di smarrire il filo conduttore che avevamo individuato. Ma questo e’ il mestiere della formazione: l’intangibilita’ delle relazioni sociali, che e’ il nostro pane quotidiano, ha ricadute assolutamente concrete nella vita e nella cultura che intendiamo promuovere.

Non e’ stata una perdita di tempo, perché quando si fa cultura il tempo non e’ una variabile che si possa governare. e’ lui che detta il ritmo della nostra disponibilita’ e della nostra capacita’ di comprensione. Le cose da fare sono sempre tante, tantissime: non possiamo lasciarci distrarre dagli affanni che subiamo dovendo inseguire le cose. Perché in questo gioco all’inseguimento rischiamo di perdere ciò che più conta, quella cultura del lavoro e della socialita’ che ci consente di vedere non solo situazioni problematiche o drammatiche, ma anche ragazzi che imparano un mestiere, che apprendono il rispetto, il senso del dovere, la creativita’, la puntualita’, ragazzi che imparano a dire «grazie», quando capiscono che in quel che gli hai detto c’era qualcosa di più di un sussidio didattico, e che imparano a prendersi la propria responsabilita’ quando, gradatamente, allenti la presa e iniziano a muovere i loro passi verso un’autonomia ancora tutta da esplorare. Questa, crediamo, e’ cultura, questa e’ la finalita’ della nostra formazione.

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